“MA PERCHE’ PROPRIO
IL CONTRABBASSO ?”
Già! Quante volte mi è stata formulata questa domanda da chi non capiva come avessi potuto pensare di realizzarmi artisticamente con questo strumento.
A tutti ho sempre risposto così: “ Per me Il contrabbasso è come una donna che, pur se non bellissima, emana un fascino irresistibile e dalla quale ci si sente inspiegabilmente attratti senza rendersi conto del perché”.
Solitamente, dopo questa risposta, gli interlocutori glissano sulle domande successive e abbandonano il progetto d’indagare con curiosità sulle mie possibili turbe mentali.
In verità, confesso che di questa mia storia col contrabbasso sono piuttosto geloso poiché, non essendo stato il classico colpo di fulmine, rivisitare il lungo e faticoso travaglio che ho vissuto prima d’innamorarmi perdutamente di lui mi costa assai.
Per di più, ora, questo rapporto è diventato talmente intimo e particolare da desiderare di schermarlo da superficiali e qualunquistiche curiosità.
L’assurdo è che questo amore è stato il frutto di un matrimonio combinato, come quelli che si usavano fare, fino a qualche tempo fa, in certe famiglie. Matrimonio combinato ma che, inaspettatamente e a dispetto della consuetudine, si è trasformato in una vera ed autentica passione.
Tutto ebbe inizio quando avevo soli 9 anni e cioè quando mio padre, Werther Benzi (1° contrabbasso dell’Orchestra della Rai di Torino) arrivò a casa con un bassetto a 3 corde (bassetto è un contrabbasso ½, quindi di piccole dimensioni), che appoggiò con delicatezza in un angolo della sala.
Io, adolescente alquanto lazzarone, vivace e dedito a far disperare padre e madre per le marachelle e per lo scarso profitto scolastico, passandogli accanto lo guardavo distrattamente, ma anche con un poco d’ironia, quasi a volerlo sbeffeggiare nella sua momentanea inutilità.
Se solo avessi immaginato che cosa avrebbe rappresentato nel mio futuro quella nuova ed immobile presenza e che cosa mi si stesse prospettando da lì a poco, probabilmente avrei scelto più volentieri un sano periodo di studi in qualche collegio piemontese, come quasi quotidianamente mi veniva proposto dai miei genitori con fare minaccioso.
A completare l’opera, dopo qualche settimana, il buon Werther arrivò con un archetto appena incrinato dicendomi che, forse, sarebbe stato bello se avessi iniziato a suonare uno strumento, anche solo per gioco. E visto che in casa c’era quel bassetto appoggiato al muro che non faceva nulla, avrei potuto iniziare con lo strimpellare quello.
Con quell’atteggiamento di superficialità che mi contraddistingueva in quel periodo ricordo che aderii con una smorfia di sufficienza pensando che, comunque, anche in quell’occasione avrei trovato il modo per non faticare troppo, ma ahimé!!!
Dopo poche settimane le lezioni diventarono sempre più frequenti, fino ad essere quotidiane e, dopo un breve periodo di rodaggio fatto di sorrisi e di comprensioni, che tranquillizzavano momentaneamente il mio vagabondare quotidiano, fui gradatamente ed inesorabilmente risucchiato dalle spire di un padre (ricordo, per chi non lo sapesse che è stato il maggiore didatta italiano di quel periodo) esigente, severissimo e negriero che mutò, nel giro di pochi mesi, quello scanzonato e spensierato lazzarone in un serissimo allievo modello, disciplinatissimo e studiosissimo.
Sì, allievo! Perché, purtroppo il nostro rapporto in quegli anni ne risentì sensibilmente, soffocato com’era dall’aspetto didattico.
Solo ora, però, posso comprendere quanto quel periodo possa essere stato pesante anche per lui. Impareggiabile insegnante, non avrebbe mai potuto accettare di fallire proprio col figlio. Così, tali furono il suo impegno e la sua grinta che, anche se all’inizio forzatamente, cominciai ad appassionarmi al contrabbasso apprezzandolo con sempre maggior interesse.
Tutti i venerdì sera, Werther, mi portava ad ascoltare i concerti all’Auditorium Rai di via Rossini. Io mi sedevo nell’ultima poltrona a sinistra della prima balconata, proprio di fronte ai contrabbassi. Da lì vedevo il direttore e scrutavo l’orchestra. Guardando con ammirazione i personaggi mitici di allora (il violino di spalla Gramegna, il 1° oboe Bongera, il 1° violoncello Egaddi, ecc. ecc.) e sognavo di sedermi un giorno sullo sgabello del 1° contrabbasso sul quale, in quel momento, sedeva mio padre.
Trascorsero i giorni, i mesi, gli anni finché, al termine degli studi, giunsero immediatamente i primi significativi risultati confortati da una brillante e rapidissima carriera che realizzò ampiamente tutti i miei sogni. Fu in quel periodo che sbocciò in me un’attrazione sempre più coinvolgente verso lo strumento e che tuttora non si è minimamente affievolita, alimentata dall’entusiasmo di sempre.
Al contrabbasso sono enormemente grato poiché mi ha dato la possibilità di vivere da protagonista il suo esaltante e rapido sviluppo tecnico di questi ultimi decenni e, per di più, gli debbo riconoscere una fedeltà assoluta che mi ha manifestato più volte nel corso della professione non tradendomi mai e condividendo con me i momenti più belli.
E’ stato importante anche al di fuori della professione, in momenti difficili l’ ho cercato come rifugio o come amico sincero e lui non si è mai negato.
Ecco perché: “Ma perché proprio il contrabbasso?” Ma, mi raccomando, non ditelo a nessuno, altrimenti non posso più usare quella risposta che ha sempre funzionato così bene e che mi ha evitato di raccontare tutto questo.
Tratto da Tema con variazioni,
mensile dell’Orchestra Filarmonica di Torino
Gen. 1999
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